Tentare di identificare un momento specifico in cui sono passato dalla lettura dei classici della tradizione poetica all’ascolto assiduo e coinvolto di brani rap non è semplice. Se è vero, infatti, che fin dalla prima adolescenza (siamo intorno al 1994) mi incuriosivano la ritmicità e l’ossessione per la rima di alcune canzoni rap (perlopiù passate in radio) è altrettanto indiscutibile che solo più tardi – diciamo a partire dal 1998 – ho iniziato a percepire che da quei testi si potesse ricavare una lezione metrico-contenutistica sino ad allora neanche ipotizzata. In tal senso, l’incontro in ambito universitario con il Prof. Paolo Giovannetti è stato uno degli eventi decisivi per intraprendere un percorso di ricerca che dura ormai da quasi quindici anni. Nondimeno, il mio successivo coinvolgimento nelle dinamiche strutturali legate all’importazione del Poetry Slam in Italia e all’evoluzione del “fenomeno rap” quale oggi lo conosciamo così ben radicato nell’humus mass-mediatico, mi ha permesso di entrare in contatto con alcuni personaggi decisamente attivi sul piano didattico e teorico, fra i quali Davide Passoni, in arte Scarty DOC del duo Eell Shous.
Accadde così che circa sette anni fa (mese più, mese meno) si decise di riunire queste forze centrifughe e di portare appunto fuori, a disposizione di studenti e interlocutori vari, le nostre idee e i nostri approfondimenti sui due contesti qui presi in esame: poesia e rap. Solitamente il circuito di Licei e Università è sempre stato il più idoneo per proporre questa sorta di lezioni-spettacolo in cui l’elemento educativo viene fuso con l’esibizione artistica vera e propria (ricordiamoci che una delle caratteristiche dell’Hip Hop è proprio l’edutainment, l’insegnare divertendo); ciò non toglie che spesso anche serate meno istituzionali in alcuni Centri Sociali o locali interessati hanno comunque permesso lo svolgersi di conferenze molto articolate sul tema.
Uno dei primi filoni d’analisi che è emerso coinvolgendo il Prof. Paolo Giovannetti ad alcune serate di Poetry Slam (disciplina che prevede la sfida fra più poeti chiamati a eseguire i propri componimenti ad alta voce senza ausilio di musiche o maschere di scena) è che si andavano delineando principalmente due “stili” apparentemente lontani fra loro. Da un lato c’è la performance virtuosistica nella gestione delle forme e delle rime: la capacità da parte del poeta di produrre alla massima velocità una quantità impressionante di suoni assonanti, calembours, paronomasie etc., sulla base di ciò che un rapper definirebbe beat, e che nella maggioranza dei casi è una struttura binaria riconducibile a un sette-otto-novenario giambico (o trocaico). Dall’altro c’è la performance di impianto vagamente cabarettistico, direi lontana da strutture sillabiche percepibili, eppure dotata di una particolare timeline discorsiva, di una cadenza in cui a dominare è la logica semantica dei parallelismi e delle antitesi.
Rifacciamoci a un paragrafo di incastRIMEtrici Vol.3 per comprendere più esplicitamente questa distinzione:
<< … sul primo versante collochiamo agevolmente questo passo di Angelo Zabaglio
La mia avventura duratura non è dura
Ho pronta l’armatura in caso estremo di tortura
La paura è pura
Mentre scura notte tipo sepoltura
Trovo via sicura
C’è chi non si cura di una minima cultura
sul secondo versante una breve poesia di Guido Catalano:
questa notte in cielo
ci sono diecimila stelle
sì, almeno diecimila
è una notte buia
è vero
ma così fresca
tu profumi
di qualcosa che non è facile da dire
di stelle
ho pensato
ma mica ne sono sicuro >> 1
Continuando nell’intervento curato con il Prof. Paolo Giovannetti, non si sta dicendo che la poesia orale “occidentale” debba per forza concentrarsi entro il continuum che va da una polarità all’altra; sembra però che queste due invarianti costituiscano un punto di riferimento forte, tra l’altro capace di relegare ai margini tutti i tentativi di oralizzare strutture nate per essere lette silenziosamente. Si pensi a chi continua a partecipare ai Poetry Slam mettendo in scena il verso libero novecentista mainstream, il polimetro che non risuona, la rima che ha efficacia solo se incorniciata dallo sguardo. Del resto è assai probabile che la bravura di un protagonista della scena slam come Sergio Garau si possa spiegare anche con la sua capacità di conciliare quanto di più efficacemente performativo c’è nei due pattern: il ritmo-sonorità che travolge, il ritmo-senso che affabulando ammalia. Attenzione, però.
La poesia muta del secolo passato ha lungamente incubato queste forme sonore, specificamente nell’ambito del verso libero. La parabola poetica di Aldo Palazzeschi, non per caso costretto a tacere davanti alla guerra e poi al fascismo, manifesta in modo quasi perfetto una discorsività oralmente rimata, bisognosa per esistere di una piazza condivisa. La non-sonorità biblica di Piero Jahier, il suo pensare esteriorizzato per coppie di concetti che infine compongono una trama narrativa, denuncia la rimozione di un modo di fare poesia che avrebbe potuto essere, e non è stato (la sua forza si è fatta sentire ai margini del sistema: la poesia neorealista, le voci altre di un certo femminismo, Elsa Morante…). Non solo. Proprio gli opposti complementari di Palazzeschi e Jahier ci ricordano qualcosa che in un Poetry Slam spesso si manifesta in maniera evidentissima. Ascoltiamo un testo rimato sì, scandito sì da un discorso temporalizzato, ma individuarvi qualcosa di stabile come un verso è quasi impossibile. Nella scrittura delle loro opere poetiche, né Palazzeschi né Jahier hanno mai voluto confermare il modo di andare a capo che via via avevano definito. I loro versi non potevano che cambiare, continuamente. Oggi, se si legge-ascolta un testo di Lello Voce, metricamente parlando il primo fenomeno che si avverte è l’assoluta incommensurabilità tra forma del verso letto e forma del testo udito. Fra i due momenti c’è una relazione di tipo parodico: l’una strania, spiazza, scorona l’altra. Vuoi vedere i miei versi? Eccoli lì, disposti in una Gestalt che la mia pronuncia distruggerà. Dietro, c’è altro. E non è detto che questo altro sia davvero un verso2. Nelle forme di poesia più antica la rima non c’è. La rima nasce nel Medio Evo come omoteleuto, segnale di parallelismi di contenuto, di significato: non diversi da quelli che “ci scappano” quando da prosatori distratti usiamo troppe parole in –mente, -are o –zione ecc. La timeline del suono è in origine anche, e insieme, una timeline delle cose dette. Il beat, quale che sia la sua manifestazione verbale, agisce all’interno di un discorso che procede dritto, pro-versus, prosasticamente. La poesia orale più coerente con i propri presupposti, non diversamente dal rap, è lì a ricordarci che la forma può nascere sùbito dai contenuti, da unità elementari di significato che preesistono al ritmo e gli danno senso.
Il rap, esperienza di metricismo dal basso, responsabile di pratiche di poesia all’improvviso date per estinte da centocinquant’anni e più, la rozza prosa ritmica dei Master of Ceremonies (gli MCs, i cantanti di questo genere) presenta caratteristiche innanzitutto prosodiche di eccezionale interesse. In tale pratica dell’oralità postmoderna balza in primo piano una sorta di ritorno all’isoritmia3, paragonabile a quel recupero dell’isosillabismo4 cui per altre strade molti poeti viceversa “alti” spingono da un ventennio a questa parte, anche se non senza discontinuità e contraddizioni. Del resto, isoritmia e isosillabismo non sono affatto la stessa cosa: e il ritmo del beat musicale chiede una prosodia accentuale diversa da quella placidamente sillabica indotta dal vecchio e peraltro sempre funzionante medium endecasillabico. Il punto davvero stupefacente è che esattamente cinquant’anni fa il primo in Italia ad aver maturato una consapevolezza epocale di questo problema era stato Franco Fortini, un autore non certo sospettabile di cedimenti avanguardistici o commerciali. La sua teorizzazione di un nuovo sistema metrico “regolare” anche se non più isosillabico corre in parallelo alla ricerca di nuova metricità realizzata nello stesso periodo della poetessa in assoluto forse più distante da Fortini e dalla sua cultura: Amelia Rosselli.
Aggiungiamo un altro paio di riflessioni: il verso accentuale e, certo, anche la linea isocolica della neoavanguardia (Sanguineti, in primis, ma Porta e Balestrini non sono da meno) tra anni cinquanta e sessanta hanno implicitamente fatto emergere un problema, prosodico e metrico assieme: la possibilità che nel particolare sistema ritmico indotto dalla musica rock e, soprattutto, rap5 si attuino, attraverso la pratica reale della performance, della delivery instance (e non solo attraverso quella virtuale del modello metrico, del verse design), soluzioni prosodiche in cui domini l’isocronia accentuale, in netto contrasto con la tradizione sillabica della nostra lingua6. In definitiva, oggi è lecito non solo ideare versi “a ictus” destinati a un riuso silenzioso, ma è consentito anche eseguirli nel canto, o in quella forma particolare di recitar cantando che è il rap. Dunque, la griglia del beat su cui l’MC costruisce la propria esecuzione è suscettibile di produrre scansioni di questo genere:
Di tè che spèndi stipèndi
stipàto in pòsti stupèndi
tra cùli su cùbi sùccubi
di bèat orrendi succhi bràndy
è [cong.] ti stèndi, dàndy,
nòn mi comprèndi, sènti,
tù non tì offèndi
[…]7.
Dopo un avvio in cui ritmo naturale della parola e ritmo musicale sono omologati, è necessario, ad esempio, mettere sotto ictus la congiunzione e, oppure promuovere al ruolo di un bisillabo il lessema succhi. Più in generale, il giambo qui dominante non impedisce che fra un accento e l’altro possano intercorrere due o tre sillabe atone. Inoltre, un dettaglio che stupisce è che una parte notevole delle prime opere anche canonicamente riconosciute come poesie in prosa italiane, quelle insomma prodotte in ambito vociano (da Boine, Jahier, Rebora, Onofri) o in aree limitrofe (Campana), non di rado indulge a un’eccitazione ritmica del dettato prosastico. La prosa come non-verso si trasforma ben presto nel luogo in cui il ritmo e il metro trionfano, anche in maniera affatto convenzionale; concentriamoci su un passo tratto da una prosa di Giovanni Boine, I miei amici di qui (uscito sulla “Riviera ligure” nel Dicembre 1915); il Prof. Giovannetti prova a trascriverlo nel seguente modo8:
Quando gioca lento con gli accordi, [10]
fa cento fuggitive meraviglie [11]
che nessuno più le udrà: [8tr]
nenia di su l’armonio all’impensata [11]
la bizzarria malata [7]
della sua lauta malinconia: [10]
proprio un malia: [6]
vaga l’avviluppa, [6]
il cerchio dell’incanto lo sovrasta [11]
e par la sua soffitta, [7]
non sai che reggia all’asta. [7]
Così se sono stanco di catalogare, [13]
di far la notomia [7]
a questa vita mia [7]
d’avaro a chicci, mi metto anch’io [10]
con lui a fantasticare, [7]
si vuotano i forzieri [7]
dei sogni e dei piaceri: [7]
non son piaceri veri, [7]
son sogni oppiati: [5]
ma il mondo è un mar di nebbie colorate, [11]
la vita non è più a spicchi: – [9]
siam ricchi, siam straricchi… [7]
e quasi consolati. – [7]
[…]9.
Tutto ciò è stupefacente se pensiamo che siamo di fronte a un componimento tutt’altro che breve (circa 400 unità metriche di questo tipo): una via di mezzo fra un saggio e un racconto, in cui domina appunto un’istanza discorsiva, il ‹‹ flusso di un fittizio parlato ›› che tuttavia “produce”, “genera” la sonorità, determinando così – per associazione fono-ritmica – un sovrappiù di sensi: affatto necessari, contestualmente, pur nella loro irrazionale (quanto al genere letterario evocato) gratuità. Un’istanza prosastica che sollecita una pronuncia ritmica e poi anche metrica; rovesciando, in definitiva, tutto ciò che sulla metrica normalmente affermiamo10. Il concetto può essere così riproposto: la testualità “regressiva” di Boine è protesa verso una mitica origine della parola in cui senso e suono si concilino, in virtù dell’indistinzione di prosa e verso, entrambi di fatto fusi e confusi nel medesimo corpo testuale. Evidentemente, tale formulazione ci costringe a fare un balzo in avanti di circa ottant’anni e a introdurci pienamente in quel genere paraletterario che chiamiamo rap. Si provi, a verifica di tale tesi, a scandire ritmicamente, su una base binaria, il passo appena letto: ci si renderà facilmente conto della sua conformità a quella cadenza, quel beat, che la cultura Hip Hop ha diffuso anche in Italia negli ultimi venticinque-trent’anni. Rimandiamo a titolo di esempio a un componimento in prosa ritmica di Frankie Hi nrg (1992), in cui il sette-ottonario svolge un ruolo egemone.
Padre contro figlio, [6] fratello su fratello, [7] partoriti in un avello [8] come carne da macello, [8] uomini con anime [6sdr] sottili come lamine, [7sdr] taglienti come il crimine, [7sdr] rabbiosi oltre ogni limite, [7sdr] eroi senza una terra [7] che combattono una guerra [8] tra la mafia e la camorra, [8] Sodoma e Gomorra, [6] Napoli e PalERMO [6] succursali dell’infERNO, [8] divorate dall’intERNO [8] in etERNO, [4] da un tessuto tumorale [8] di natura criminale [8] mentre il mondo sta a guardare [8] muto senza intervenire [8]11.
Proprio il ribattere martellante della rima in un testo che si configura come prosastico (cioè non-poetico) rende attuale un’osservazione fatta da Michail Gasparov12: spesso nella storia delle strutture metriche (tipico il caso della tradizione russa; ma anche della nostra greco-latina, almeno se badiamo a certi suggerimenti di Eduard Norden) la rima è una caratteristica che si manifesta dapprima nella prosa e che solo in un secondo tempo caratterizza il verso. Si prendano in esame i versi conclusivi di un pezzo del gruppo rap napoletano Chief&Soci (il titolo è Mazz’ e Panell e risale al 1997),
[…]
all’ato munno, / vu sapé quello che m’esce
stile pazzia o frà e sia, / e a tant’anni ossia
chisto è o stile mio / è nato mmiez’a via,
già chi nun me vo crerere, / sadda solo stà
no muthafucka / ma me l’adda fa cà13
e scopriamo che dentro il corpo delle linee “per l’occhio” è possibile individuare una trama dominata dal sei-settenario della canzonetta napoletana; tanto più stupefacente in quanto qui è parafrasato il motherfucker della cultura Hip Hop. In particolare negli ultimi quattro versi, ove si alternano terminazioni piane, tronche e sdrucciole, abbiamo lo schema
a6 b7 c7sdr d6tr d6tr d7tr
La vocalità di sfida14, caratteristica del recitativo argomentante praticato nella produzione rap, induce un’esaltazione ritmica che cresce all’interno di un’intenzionalità istituzionalmente prosastica. Con questo passaggio mi collego, così, all’introduzione di alcune riflessioni fatte con Davide Passoni (in arte Scarty DOC del duo Eell Shous) sulla liceità o meno di considerare il rap una forma di poesia. Ci è capitato spesso, infatti, di condurre incontri di Poetry Slam e di veder gareggiare oltre ad aspiranti poeti, anche dei rapper. Spesso (non sempre) questi ultimi hanno avuto la meglio sugli altri concorrenti e abbiamo captato fra il pubblico commenti come “ma questa non è poesia, è rap” o similmente “la poesia è armonia di forme e contenuti, non un testo aggressivo”.
Che differenze o somiglianze vigono, pertanto, fra i due mondi artisitci presi in esame? A Davide Passoni piace partire dalla citazione di un film, Urlo15, in cui si afferma che ‹‹ la poesia è l’articolazione ritmica dei sentimenti ›› definizione quanto mai appropriata per avvalorare da un punto di vista tecnico l’assunto che la poesia non è del tutto distaccata dal testo musicale, in particolare dal testo rap. Per quanto possa sembrare atonale, monotono e semplicemente percussivo, il rap è un genere musicale in cui testo e ritmo sono elementi fondanti. Dunque, se quello che viviamo tutti i giorni è sentimento, se la protesta è sentimento, se l’apatia quotidiana è sentimento, se lo sfogo e la ricerca di libertà sono sentimento, allora il rap ne è l’articolazione ritmica, così come la poesia16. Qual è allora la sostanziale differenza fra rap e poesia? La differenza sta nel riversamento, nella fruizione, nella modalità di diffusione. Accettando con le dovute cautele l’idea che la poesia è maggiormente destinata a una lettura cartacea, il rap, in quanto genere musicale, se ne differenzia poiché destinato all’ascolto. La poesia porta con sé il ritmo, quasi a essere uno spartito per la parola; il metro dà la sensazione ritmica per quello che le parole esprimono: anche se libero, il metro ha un suo ritmo, dal quale non si può prescindere. Il poeta scrive il ritmo nelle parole e negli accenti, dando la chiave di lettura dei suoi versi nella struttura stessa del componimento. Se si usa una metrica molto serrata, stretta, chiusa, la poesia esprimerà sentimenti rapidi e netti; se, al contrario, si usa un metro più diluito, quei sentimenti risulteranno più calmi e cauti. Il ritmo e la velocità sono scritti tutti sulla carta, leggibili.
Spostandoci sul testo di una canzone rap, invece, verrebbe da dire che si tratta di prosa, oppure di una poesia a metro libero con un ritmo non dichiarato, interpretabile: il lettore potrebbe intendere momenti di pausa laddove in realtà non ve ne sono, e viceversa. Il rap è molto libero a livello di scrittura, così come molti testi della canzone melodica: leggendo il testo distaccato dalla musica non possiamo riconoscerne il ritmo, ancora meno la melodia. Dunque, l’unica cosa che imbriglia il rap all’interno della metrica è una scansione ritmica/temporale. Ecco che si arriva alla sostanziale differenza fra tra poesia e rap: la poesia porta con sé il ritmo mentre la si legge, il rap no. Il rap può essere “inteso” solo se associato al suo spartito. Emerge, quindi, che la lettura di una poesia si differenzia dalla lettura di un testo rap per la mancanza di uno spartito: la poesia porta con sé uno “spartito” che è dato dalla metrica e dalla composizione stessa, mentre nel testo rap lo spartito è sul pentagramma, e non sul foglio dal quale si legge. Vediamo questo esempio tratto dal brano rap, Popolare, di Marracash (2005)17
Io quando andavo a scuola / da bambino – da bambino
La gente nella classe / mi chiamava marocchino – marocchino
Ora la gente di classe / la rapino
Tasche grasse e tante grazie un punto su un kilo, giro
i due versi iniziali sono un ottonario e un quaternario. Se si contano le sillabe come le si conta in poesia, il rap non ha una metrica fissa. Ma, in realtà, non vi è niente di più fisso dei paletti ritmici della musica, del quale ovviamente fa parte il genere musicale qui preso in esame. Consideriamo il tempo musicale più comune, il quattro quarti. Sappiamo che la musica si suddivide in sotto-unità di tempo: un intero o misura, quarti, ottavi, sedicesimi, trentaduesimi, sessantaquattresimi e cosi via. Come nella metrica poetica, il quattro quarti ha degli accenti fissi e forti, ovvero sui battiti dispari: un-due- tre-quattro. Nel rap la sotto-unità caratteristica è il sedicesimo: se si ascolta una canzone rap, ogni sillaba rappata corrisponde proprio a questa unità, tanto che si può definire il rap una sorta di componimento in versi da sedici sillabe con l’accento sulla quindicesima18. Allo scoccare dei trentaduesimi avviene il fenomeno del cosiddetto extrabeat, vale a dire il raddoppiamento della velocità ritmica del testo. Altrettando, esiste anche un downtempo, un rallentamento, nel momento in cui il rapper scandisce le parole sugli ottavi della base musicale, altrimenti detta beat o strumentale.
Questi giochi ritmici rendono il testo meno monotono, dando la possibilità all’ascoltatore di immergersi nella musicalità del testo.Nella musica la pausa (in questo caso la o le sillabe non scritte) è parte integrante della partitura. La pausa dà ritmo.Proprio con l’alternarsi di pieni e vuoti si crea musica, di conseguenza nel rap le strofe saranno di sedici sillabe se si considera il verso standard, ma possono esserci molte pause: nel momento in cui si prende in mano un testo rap scorporato da un’eventuale partitura musicale, la lettura ritmica è impossibile perché non dichiarata tramite una metrica letteraria, ma tramite una metrica musicale.
La poesia è la versione ritmica della prosa
Il rap è la versione ritmica della musica (specie pop).
La poesia è composta da sillabe: quantità ed accenti.
Il rap è composto da sillabe: pieni e vuoti che intercorrono lungo gli accenti fissi e forti dello spartito19.
Esistono anche altri generi musicali che sottolineano con forza la ritmica della parola, come il rhytm’n blues, da cui deriva il rap stesso. Si può dire che il rap non è l’unico genere musicale in cui predomina la ritmica della parola, ma di sicuro è il genere in cui questo fenomeno vede le sua massima espressione.
La poesia, dunque, nasce con l’intento di trasmettere nella sua elaborazione il ritmo che la caratterizza. Il rap, essendo associato alla musica, non può essere riletto scorporato dal suo spartito: si perderà l’intento ritmico del compositore non avendo gli adeguati riferimenti musicali. Ogni lettore, a seconda della propria sensibilità alla musica, ne interpreterà a piacere pause e accenti. Mentre nella poesia la pausa è scandita dalla fine del verso o della terzina / quartina / n, il rap non ha con sé questo bagaglio musicale. Questo fa sì che ogni rapper trascriva in maniera del tutto autonoma i propri testi: taluni rendendoli un testo di semplice prosa, altri cercando di andare a capo in corrispondenza della fine della battuta musicale corrispondente. Molti utilizzano il simbolo “ / ” per segnare la fine del verso o evidenziarne le rime. Tutti espedienti che non riusciranno mai a dare il corretto riferimento ritmico se non a fronte di un ascolto precedente della canzone.
Tirando le somme, si può affermare che nella poesia abbiamo un contenuto ritmico e dichiarato a livello testuale. La mancanza verso il lettore sta nella trasmissione dell’intensità e interpretazione empatica, che non sempre coincide con quella del poeta. Nel rap abbiamo carenza di contenuto ritmico nella semplice lettura dello scritto separato dalla musica, ma un incremento interpretativo da parte dell’autore avendo l’opportunità (se non l’obbligo artistico) di esporre con la propria voce l’elaborato sul tempo.
Il Poetry Slam costituisce il punto di unione di queste due realtà: nel caso di una canzone rap, escludendo l’utilizzo di strumentali, si permette al performer di eludere i vincoli dettati dalla velocità e dalla ritmica musicale, consentendogli di recitare il brano rallentando o intensificando quei passaggi per lui più evocativi, aumentando la comprensibilità del messaggio e la trasmissione empatica. Dall’altra parte si offre la possibilità ad un poeta di acquistare quella dimensione teatrale, interpretativa e orale che la lettura individuale non rivela20.
RIPRODUZIONE RISERVATA – APRILE 2016
Photo courtesy of Marco Borroni
NOTE
1 Marco Borroni, incastRIMEtrici Vol.3, Arcipelago Edizioni, Milano, 2013, pp. 37-38.
2 Ibidem, pp. 38-39.
3 Isoritmia è un termine coniato nel 1904 dal musicologo tedesco Friedrich Ludwig, in riferimento a una tecnica di composizione tipica dei mottetti dei secoli XIV e XV. Dal greco iso + rhythmos “ritmo uguale” è la ripetizione di una figura ritmica (successione di valori di durata delle note) nelle diverse frasi di una composizione musicale. È una tecnica che organizza uno schema fisso di piazzole con un pattern ritmico ripetuto.
4 L’isosillabismo è il principio metrico secondo il quale ogni tipo di verso deve contenere un numero preciso e invariabile di sillabe metriche. In particolare, si parla di isosillabismo in riferimento alla metrica greca eolica, che non permette la sostituzione di una sillaba lunga con due brevi e viceversa, mantenendo così costante il numero delle sillabe dei versi.
5 Cfr., per un approccio sperimentale del problema, F. Cutugno, C. Crocco, Fusione di strutture ritmico-linguistiche e strutture musicali nel rap, in Atti del XXVI Convegno nazionale dell’Associazione italiana di acustica (Torino 27-29 Maggio 1998), Istituto elettrotecnico nazionale Galileo Ferraris, Torino 1998, pp. 81-85.
6 Paolo Giovannetti, Dalla Poesia in Prosa al Rap, Interlinea Edizioni, Novara, 2008.
7 Caparezza, Fuori dal tunnel (del divertimento), in ID., Verità supposte, Emi, 2003 (divisione in versi curata dal Prof. Paolo Giovannetti).
8 Se ne ascolti anche un’interpretazione sperimentale consultando il link http://www.marcoborroni.com/video.html, sezione IRIS, Ti racconto un libro – Servizio sul Poetry Slam.
9 Paolo Giovannetti, Dalla Poesia in Prosa al Rap, Interlinea Edizioni, Novara, 2008, p. 175.
10 G.Bertone, Le sperimentazioni formali nei ‹‹Frantumi››: ritmi e metri, in ID., Il lavoro e la scrittura. Saggio in due tempi su Giovanni Boine, Il melangolo, Genova, 1987, p. 115. Cfr. anche C. Martignoni, I ‹‹Frammenti›› di Boine: aforisma, autobiografia, divisione dell’io, in “Autografo”, 15 (1988), pp. 21-34.
11 Frankie Hi nrg, Fight Da Faida, in Verba Manent, BMG, 1993.
12 Cfr. M. Gasparov, Storia del verso europeo, pp. 76-79.
13 Cfr. Hip Hop Italiano, a cura di P. Pacoda, Einuadi, Torino, 2000, p. 111.
14 Cfr. Marco Borroni, Rime di Sfida, Arcipelado Edizioni, Milano, 2004.
15 Regia di R. Epstein, J. Friedman, USA, 2010. In questo film si parla dell’omonimo poema di Allen Ginsberg.
16 Davide Passoni & Marco Lombardo, Oltre le barriere della metrica: il ritmo del rap, in I Quaderni della Ricerca. La letteratura in cui viviamo, Università IULM, Loescher Editore, Torino, 2015, p. 139.
17 Marracash, Popolare, tratto dall’album Roccia Music Vol.1, autoprodotto, 2005.
18 Davide Passoni, Approfondimenti metrici – rap, poesia e poetry slam, in ARGO Annuario di Poesia 2015, Gwynplaine Edizioni in coedizione con Associazione Nie Wiem e Argo Rivista d’esplorazione, Ancona, 2015, p. 228.
19 Ibidem, p. 229.
20 Ibidem, p. 232.
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