i cannibali della parola

Slam[Contem]Poetry

I morsi scultorei di Dome Bulfaro

di Dimitri Ruggeri – Dome Bulfaro è un poeta che sembra a tratti morsicare, a tratti respirare, a tratti ancora morire come mimasse l’esistenza intera decrepita e afflitta; il tutto in un equilibrio tra il verbo scritto e orale, tra il polmone e la lingua, tra il cranio e l’ultimo dito del piede. Dome è un archeologo del corpo umano e, a ragione, la sua poesia si può definire archeologica. L’intervista si è basata sull’analisi dei libri da lui composti dal 1997: Versi a Morsi (1997), Ossa Carne. 16 reperti 32 contatti (1997-2006), Madre wabi-sabi. Ictus 1-8 (2006), Milano Ictus. Ictus 9-12 (2001-2010) e Prima degli Occhi. Ictus 13-16 (2010-2011).
In esclusiva infine, per il progetto SlamContemPoetry, proponiamo l’audio del testo inedito Ictus 15 – Sogno  con la musica del musicista e compositore David Rossato tratto dal libro con CD  in uscita a settembre 2015.

[…] Ci sono rivoluzioni che nascono anche dall’assenza di respiro; rivoluzioni che vengono soffocate o nascono perché un popolo si sente soffocare. In ogni caso, la rivoluzione è un moto espansivo: i polmoni incamerano nuovo ossigeno che sarà metabolizzato. Se la metabolizzazione corrisponde alla riarmonizzazione allora è possibile “Digerire l’urlo” dell’intera specie umana. […] (D.B.)

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INTERVISTA a cura di Dimitri Ruggeri

D.R. Nella raccolta “Versi a morsi” sotto i titoli delle poesie riporti alcune indicazioni che cito: Leggere a denti stretti oppure da leggere col collo tirato all’insù, oppure ancora da leggere con una cosa in bocca etc. Ebbene, confesso di averle disattese tutte quante. Mi sono imposto di leggere a “Silenzio stretto”, in modo claustrofobico che a mio avviso è il fine – difficilmente da raggiungere – di tutto, dell’uomo stesso. Nel testo “Versi di un lupo scellerato” sintetizzi l’apparente carnalità di un ringhio di Lupo con un tendere quasi a Dio, quasi a ridurre la distanza tra la vita e la morte. “La fronte di mio padre è lunga otto ore” si contrappone naturalmente a […] Contorcer le interiora con rabbiosa betoniera Rimugugnio di mani amare dentro frattaglie di voli […] “. In definitiva come hai raggiunto l’equilibrio di questa “carnalità canina” (apparente)?

D.B. Tra le agogiche più tradizionali, oltre alla gamma che va da Grave a Presto, ve ne sono alcune di carattere espressivo come Affettuoso, Appassionato, Cantabile, Dolce… Se un compositore indica come agogica Allegro non troppo tu non sei costretto a seguirla, però devi essere consapevole che stai disattendendo il tempo d’esecuzione che, secondo il compositore, è quello che meglio incarna la sua musica. Ora le agogiche della silloge “Versi a morsi” – a denti stretti, con l’ultima parte del respiro, … – sono state scelte per far risuonare i versi lungo tutto l’apparato fonatorio di un corpo umano secondo un preciso assetto, sono state scelte quelle parole e non altre, quella struttura ritmica e non un’altra per ottenere, una volta emesso il fiato, un determinato suono e non un altro. La forma dell’ottonario doppio, inusuale nella tradizione italiana di poesia per adulti, in questo caso non risulta né cantilenante né melodiosa proprio perché sono state scelte sonorità dure e contrastanti che l’assetto indicato esalta. Poi si può fare tutto, io per primo non seguo pedissequamente l’agogica di questi versi per non cadere in un’esecuzione meccanica.
Sono stato fin da “Versi a morsi” (1997) uno scultore di poesia che modella il suono e intaglia parole nelle correnti del fiato affidate alle ali del vento. Uno scultore di parole che racconta storie di personaggi (fatto piuttosto inedito nel 1997 in poesia), come accade per i sei reietti di Milano, che per distici ottonari doppi (la cui sillabazione corrisponde per ogni distico ad una dentatura perfetta di 32 denti) narrano per propria bocca i tratti salienti della propria vita, mettendo in luce i lati oscuri della città e degli abitanti della metropoli che li hanno emarginati.
Mi domandi come ho raggiunto l’equilibrio di questa “carnalità canina”. Per risponderti, consapevole che sia impossibile essere preciso, partirei da un dato: in Accademia di Brera che frequentai come allievo di scultura, ebbi la fortuna di avere Francesco Leonetti come docente di Estetica e Roberto Sanesi (che seguii per quattro anni nonostante il suo corso fosse annuale) come Docente di Antropologia Culturale. Da queste due polarità poetiche in cui mi formai si possono implicitamente tirare alcune conclusioni. Inoltre non fu un caso che i consigli più utili su “Versi a morsi”, all’epoca me li diede (oltre a Luigi Cannillo) anche Michelangelo Coviello, un poeta che si era contraddistinto fino a quel momento per il suo verso crudo, aderente ad una percezione ruvida e carnale della realtà. In ultimo, aggiungerei, che amavo molto, come ancora amo, la poesia di Testori e Claudio Recalcati.
Credo che la silloge “Versi a morsi” sia il risultato di un equilibrio che rappresentava anche un anello di congiunzione tra istanze poetiche che all’epoca assurdamente ancora si fronteggiavano: poesia tradizionale vs poesia sperimentale (che in sé inglobava anche quella sonora e visiva). Ai tempi dell’Accademia di Brera, inoltre, praticavo la performance art e frequentavo una compagnia teatrale “I gamba de legn”, di Vincenzo Bellini, che mi avviarono all’arte del mimo oltre che a quella della parola recitata.

D.R. Nel libriccino “Madre Wabi-Sabi.Ictus 1-8” le stagioni dettano il ritmo secolare e sonoro di ogni cosa in un preludio che inizia ancora con la morte (infantile purtroppo) “[…] veder l’agonia dei seni gonfiarsi nella pelle che non saremo più:/ moriremo genitori, famiglia, pescheremo uno scheletro dal ventre […]” sino a scomparire nel nulla grazie alla natura “[…]dormire nel palmo della tua mano tornare rigurgito d’universo/ nel rantolo dei fior di pioppo,[…]” o grazie alla mano umana “[…] uccidere: ecco la legge che carica di mitraglie i muscoli/ il rosario di perdono nei muscoli della sera […]”. Può una rivoluzione iniziare dal respiro per “digerire l’urlo”?

D.B. Ci sono rivoluzioni che nascono anche dall’assenza di respiro; rivoluzioni che vengono soffocate o nascono perché un popolo si sente soffocare. In ogni caso, la rivoluzione è un moto espansivo: i polmoni incamerano nuovo ossigeno che sarà metabolizzato. Se la metabolizzazione corrisponde alla riarmonizzazione allora è possibile “Digerire l’urlo”, dell’intera specie umana. Giancarlo Majorino in “Andavamo tutti…” scrive di “una universale processione forte respirante / sbandata ma diretta senza macchine da presa / o per quegli apparecchi occhialuti ritrasmessa / eravamo dentro pure per noi scorreva noi fissi davanti / cosa preoccupava il rinoceronte con intorno il vuoto?”
Il nostro salto evolutivo, con dentro e intorno il vuoto, trova nel gesto estetico il suo più alto iniziatore; inoltre dipenderà anche da una differente “respirazione della morte” da parte della cultura occidentale. Vita e morte sono i poli di un processo di traspirazione delle forme. La malattia e la morte sono le nostre più buone amiche perché ci riportano a dialogare col nostro limite. Cosa c’è di più desolante che vivere in eterno nella stessa forma?
La morte è il rocchetto su cui riavvolgere il filo della vita e recuperare il bandolo del senso: la bellezza racchiusa nell’impermanenza. Non è un caso che il mio progetto poetico inizi nel 1997 dal ritrovamento di uno scheletro sepolto in una tomba (“Ossa. 16 reperti”).
Ogni verso è un respiro, ogni verso quando è Poesia è una rivoluzione. Ogni silloge è stata composta secondo un certo respiro: in “Ossa” i versi corrispondono ai respiri dei segmenti ossei, in “Carne” la versificazione assume in linea di massima un respiro regolare, in “Milano Ictus” il respiro è come la facciata del Duomo di Milano, dalle prose poetiche narrative si sviluppano e stagliano versi verticali liberi in cui s’inseriscono versi a forma chiusa con ictus fissi; in “Prima degli occhi” il respiro diventa quello profondo dello stato di semi-trance, in “Madre wabi-sabi” il respiro è quello ampio e quasi prosaico dell’endecasillabo doppio, che si disfa e si ricompone in questi primi 8 ictus, che formano un unico grande respiro poematico.Il ciclo circolare delle stagioni dimostra che il tempo lineare è contemporaneamente un’illusione e una realtà propria di ogni forma. Nel preludio (Ictus 1), devo contraddirti, non parlo di una morte infantile, ma di una ragazza che resta incinta, fatto che determina un passaggio di stagione da parte di tutti e tre: la ragazza, il ragazzo e l’embrione del figlio. Per questo l’Ictus 1 s’intitola “Scheletrico di una famiglia”.

D.R. Nella raccolta “Prima degli occhi” colpiscono, come sassate, le anafore […] Mentre muoio un moscone Sbatte sul vetro. sul vetro. Vetro” quasi a sottolineare l’indifferenza umana evidente nella poesia “Sogno”. Qual è stato il livello poetico (linguistico e stilistico) per argomentare questo aspetto dell’animo umano?

D.B. Come ci comportiamo quando vediamo un piccione o altro animale morto sul ciglio della strada? Lo seppelliamo? Lo sottraiamo al transito delle automobili per adagiarlo con delicatezza in un angolo tranquillo? No, i più fra noi, passano oltre, indifferenti.
L’indifferenza umana, il rendersi totalmente impermeabili all’altro, totalmente refrattari alla distinzione tra bene e male,ha immediatamente evocato in me (grazie anche all’anafora citata nella tua domanda)  uno dei poeti che più amo e ho scavato: Delio Tessa. Nella poesia “I Ca’” il Tessa usa le parole come sassate contro i muri di quelle case e quei palazzi simbolo di una Milano in espansione urbanistica (Sass… contra i mur / scur de qui cà), in cui vivono persone borghesi, indifferenti al poveraccio affamato che urla in strada, disperato, perché ha perso il lavoro e urla “Demm/ de lavorà.à.!..”

Nella prosa di apertura dell’“Ictus 15. Sogno” l’indifferenza è veicolata dall’impiego di un linguaggio tipico del giornalismo di cronaca. Oltre le anafore svolgono un ruolo determinante le poche, mirate, rime; i frequenti ossimori (“urlanti rugiada”) e le scene ossimoriche (“Lavarono dal sangue le zollette”) o metafisiche (“Tre isolati più in là due ragazzi / Baciandosi prendono fuoco, una mamma / Cigolante spinge il figlio sull’altalena”) immerse in quell’atmosfera di “serena provvisorietà” come scrive Gianmaria Nerli, nella presentazione di questi testi nel recente numero 09 della rivista “In Pensiero”.
In effetti anche gli Ictus dal 13 al 16 sono versi incentrati sul principio estetico giapponese del wabi-sabi, in cui a differenza però della silloge “Madre wabi-sabi”, l’io poetico invita un defunto (il figlio) ad osservare la propria morte e come gli esseri umani si comportano di fronte alla morte. Nell’Ictus 16, che dà il titolo all’intero libro “Prima degli occhi”, il linguaggio del verso assume una natura proverbiale e aforistica: “Post mortem un animale in decomposizione / Lo definiamo carogna / nessuno si vergogna/ …”

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D.R. In “Ossa Carne” mi ha incuriosito la tua poesia che definirei “Poesia archeologica” e cioè tendente a stabilire, a tratti scientificamente, il contatto con la vita passata di morti inascoltati in vita “[…] In noi, s’impernia Galla Placidia, mosaico di cellule staccate dall’arcobaleno in noi, s’infuria Giovanna d’Arco […]” . Il poeta oggi può essere ancora definito un medium?

D.B. Il primo testo di “Ossa Carne” è una prosa poetica, in cui si simula che essa sia stata scritta in prima persona dall’archeologo (alterego del poeta) che ha scoperto una tomba che si può considerare, per più ragioni, indecifrabile. Parlare quindi nel caso della mia ricerca di “Poesia archeologica” mi pare tra le definizioni più pertinenti che le siano state date. Anche perché intendo la poesia, quale pratica di disvelamento dell’arché, il principio primo, comune a tutti noi. “Ossa”, che è il primo dei 4 libri, avvia alla scoperta di una tomba, una sepoltura: i versi scavano per liberare.
L’uomo è una cavità, un canale di sintonizzazione otturato: quindi il lavoro vero del poeta non è quello di scrivere versi bensì quello di riaprire, tramite la scrittura e la voce, una grata di comunicazione tra mondi che non comunicano solo perché non si ascoltano. In noi si condensano voci inascoltate che vanno ricondotte all’armonia.
Le poesie, al pari dei buchi e dei tagli di Fontana, aprono lo spiraglio per entrare in un’altra dimensione. Il poeta è la lama per fendere la soglia, attivare il rito di passaggio; o quantomeno è una fenditura che apre ad una dimensione metafisica che ci è propria; si pensi a “Xenia I e II”, il ciclo di poesie di Montale offerto alla moglie defunta: “Avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento. / Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo.”
Il culto degli antenati, fenomeno antropologico trasversale a più culture, in Cina non appartiene strettamente alla religione: esso è l’estensione della pietà filiale, principio morale fondante della cultura cinese, che in alcune zone si è sviluppata in forme di venerazione dei defunti dettate dalla convinzione che si comunichi col mondo spirituale.
Il poeta quindi, in senso lato, può essere definito un medium, fatto ben visibile non appena il poeta legge dal vivo davanti ad un pubblico. La poesia, in senso lato, in quanto “mezzo, tramite” è un medium (dal fr. médium, che è dall’ingl. medium, a sua volta dal lat. medĭum ‘mezzo, tramite’, neutro sost. dell’agg. medĭus ‘medio’).
Se solo sporgessimo il nostro naso fuori dai confini italiani e guardassimo con occhi transculturali, non sarebbe difficile riconoscere che nelle varie epoche come nel mondo contemporaneo (vedi in Africa, in Brasile, in Messico…), sono esistiti ed esistono tuttora poeti che sono, in senso stretto, veri e propri medium in grado di mettere in contatto il mondo parallelo degli spiriti defunti con quello dei vivi. Nel viaggio a Rio De Janeiro ho incontrato un giovane poeta brasiliano, Samuel Luis Borges, che praticava una poesia evidentemente agganciata alle culture tribali dell’Amazzonia e che recuperava il modello culturale del poeta medium. Si segua con attenzione il “Rinascimento nativo Americano”. L’occidente ha dismesso da secoli, persino dal proprio immaginario, l’idea che un poeta possa sviluppare poteri detti paranormali, ampiamente studiati dalla metapsichica, ma è possibile. È ora che gli occidentali smettano di essere supponenti: i nostri modelli culturali non sono i migliori in assoluto e non sono gli unici possibili.

D.R. Spesso Milano è il palcoscenico in cui le vicende si stagliano senza una precisa regia “[…]la città come una spogliarellista con l’estate nelle vene dovrebbe donarci il suo fegato in tutta la sua arborescenza e non la sua metastasi […]” Qual è la cura per eliminare le metastasi?

D.B. Leonardo da Vinci, aveva progettato una Milano, in cui la rete di canalizzazione, ben presente nella sua epoca, fosse potenziata a tal punto da rendere l’acqua l’elemento caratterizzante della città. Nella mia poesia da te citata affermo anche che “La città dovrebbe restituirci un nuovo Leonardo / dal genio rigenerante / e non indurci a credere che le stelle / siano appese al cielo come bottoni scuciti, come funi di anime a cui non appendersi”. Purtroppo Milano nel tempo ha scelto la direzione opposta a quella indicata da Leonardo e oggi invece di avere una città immersa nell’acqua e nella natura abbiamo una metropoli fatta di cemento e smog. Le metropoli di questo tipo sono una metastasi. Tutto ciò che va verso la spersonalizzazione, l’indifferenziato è una metastasi. Più una cosa ci è indifferente meno ci è prossima. Non è un caso che il filosofo Umberto Galimberti indichi l’indifferenza come uno dei peccati capitali della nostra epoca. All’uomo serve umanità, serve conoscersi con e nell’altro. La città deve donarci la luce come unità di misura. Danilo Dolci affermava che “Ciascuno cresce solo se sognato”. Sogno che gli uomini abitanti delle città non vengano più chiamati “cittadini” ma “luminosi” e che caricati da questa definizione comincino realmente a comportarsi da “luminosi”. Sogno con un cuore bambino che una parte dell’umanità smetta di essere la metastasi della Terra e che l’intera umanità viva finalmente in pace, suddivisa in villaggi, abitati da persone che nel rispetto di tutti gli esseri senzienti, operino e scelgano insieme, senza che mai il numero di abitanti determini la spersonalizzazione e l’indifferenziato. È un’utopia che forse non si realizzerà mai, tuttavia anche solo sognarla, nella piena consapevolezza che sia un’illusione, comunque cura la mente e apre il cuore. Scrive l’amico poeta siriano-palestinese Khaled Soliman Al Nassiry: “Se insisto a fissare un pozzo scavato nel vuoto, / è perché conto i miei giorni o i naufraghi, è perché io sono “di là” / ma sono qua.”

D.R. Il poeta oggi deve essere più Homo Habilis o Homo Sapiens Sapiens?

D.B. Se dovessi risponderti con uno slogan, prenderei a prestito le parole dello scrittore Danilo Kiš: “Homo poeticus, malgrado tutto”. Di primo acchito infatti, dopo aver letto la tua domanda, mi è tornato alla mente un verso di Seamus Heaney: “È acquattata la penna. / Con quella io scaverò.”
L’Homo Habilis, che intendo qui in senso evoluzionistico, nonostante si sia estinto più di 1,5 milioni di anni fa, non è da considerarsi estinto in quello che noi siamo oggi. L’uomo, come il tronco di un albero, conserva gli anelli di tutte le sue età. Per questo ognuno di noi è contemporaneamente neonato, bambino, adolescente, adulto. Così come la corteccia non è l’albero, allo stesso modo noi non siamo solo la nostra attuale specie. Gli anelli che vorremmo rimuovere vanno invece fatti risuonare l’uno nell’altro affinché l’intero albero trovi la massima armonia.
Franco Buffoni, poeta e me caro, che più di una volta ha ragionato sulla specie Sapiens-sapiens in un’intervista ha affermato: “Siamo ormai una specie troppo poco “naturale” per parlare di che cosa è naturale. La Sapiens-sapiens è diventata tale proprio perché si è distanziata dalla natura, dalla animalità. Per gli appartenenti alla Sapiens-sapiens, oggi, “naturale” dovrebbe essere l’accentuazione di educazione, gentilezza, civiltà: umanizzare il mondo, diceva Rilke.”
L’artista Michelangelo Pistoletto traccia un nuovo simbolo dell’infinito per indicare un “Terzo Paradiso” che “consiste nel condurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la politica a restituire vita alla Terra, congiuntamente all’impegno di rifondare i comuni principi e comportamenti etici, in quanto da questi dipende l’effettiva riuscita di tale obiettivo. Terzo Paradiso significa il passaggio ad un nuovo livello di civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza.”
Oltre Buffoni e Pistoletto, potremmo citare un’infinità di tesi più o meno condivisibili che tendono però tutte allo stesso punto di fuga, che mi preme risottolineare: è tempo che l’uomo compia un salto non solo culturale ma evolutivo.
Credo che l’umanità, per rendersi umana fino in fondo, debba consumare un paradosso: debba cioè “deumanizzare il mondo”. Come? Ad esempio assumendo una posizione e uno sguardo laterale, in cui inglobare da osservatore anche il punto di vista del regno animale, vegetale e minerale. Bisogna lasciare l’altro da sé “ci strugga”. Lo struggimento è un principio estetico e morale della mia poesia scritta e performativa. L’homo informaticus in cui una parte della specie si sta già trasformando, non rappresenterà alcuna reale evoluzione, se non si lascerà struggere dalla bellezza; è tramite la resa allo struggimento che ci si potrà elevare ad uno Stato di Grazia, smarcandoci dalla dis-grazia che oggi una buona parte di uomini rappresenta per il nostro Pianeta. “L’educazione, la gentilezza e la civiltà” indicate da Buffoni, corrispondono nel mio modo di interpretarle alla Grazia, simbolo di Rinascenza, che dalla mitologia romana fino al messaggio cristiano, arrivando alla sua concezione più estesa, è nel DNA dell’arte e della letteratura italiana.

D.R. Prossimi appuntamenti e progetti che ci puoi anticipare. Sul web dove ti possiamo seguire?

D.B. Sul canale youtube e spero sul mio sito, che potrebbe essere online per dicembre 2015. Adesso sto lavorando a più progetti, ne seleziono alcuni:
Sul piano critico sto curando, con Simona Cesana, Anna Castellari e Patrizia Gioia la prima antologia in Italia di poetry therapy per bambini dagli 8 anni in su. L’antologia, che dovrebbe essere pronta per settembre, include molti dei migliori poeti italiani per l’infanzia.
Come poeta invece, sta per uscire il libro “Prima degli occhi” con CD realizzato con il musicista e compositore David Rossato, del quale riporto alcune impressioni relative al lavoro:

Leggendo i componimenti di “Prima degli occhi”, da subito ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una poesia del sacro, in cui il poeta si fa canale di qualcosa di “oltre”. Musicalmente l’unico approccio per me possibile era quello di accompagnare il rito in punta di piedi, creando risonanze, contrappunti aurali, rimandi a territori liminali, in cui suoni ambientali, strumentali e vocali si stratificassero e “alchimizzassero” seguendo il dipanarsi del viaggio proprio di ogni Ictus. In “Ictus 15 – Sogno” ho cercato ad esempio di creare una sorta di “poetryscape” dai caratteri sfumati, nebbiosi, fuori fuoco, che evocasse il vagare incerto dell’anima nella fase del Bardo, alla ricerca del passaggio, così come narrata dalla voce “sdraiata” e quasi rotta dal sonno di Dome”(David Rossato)

Mentre in duo con Lorenzo Pierobon, il mio maestro di canto armonico con cui ho già collaborato in “Milano Ictus”, sto preparando un reading rituale incentrato sulla magia dei suoni e sulla potenza apotropaica della parola poetica. In questo “Parola magica”, così per ora s’intitola il progetto, passiamo insieme senza soluzione di continuità dalla parola detta alla cantillazione, dalla parola cantata a quella transpersonale, da poesie già composte e apprese a memoria da dire in mille variazioni alla composizione di poesie estemporanee (ricerca artistica che da qualche anno pratico con sempre maggiore assiduità). In particolare è stato per me interessante comporre avendo di fronte una tavola vocalica ricavata da Pierobon in forma di quadrato, da quella ritrovata nella città di Mileto: fissando le 7 sequenze delle 7 vocali di questo quadrato magico (7 vocali x 7 vocali) mi sono apparse, come corpi emersi dal fondo del mare, 7 poesie che pur essendo diverse nelle consonanti conservano sempre identica la sequenza vocalica.Infine sto impostando la decima stagione di PoesiaPresente (www.poesiapresente.it) e sto seguendo, prima come cofondatore e adesso come Presidente, lo sviluppo della LIPS, Lega Italiana Poetry Slam (www.lipslam.it). Qui mi fermo, perché l’argomento ci porterebbe in un mondo della poesia orale parallelo a quello finora esplorato insieme.

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BIOGRAFIA

Dome Bulfaro (Bordighera,1971) vive a Monza. È poeta, performer, artista, insegnante. Ha pubblicato Ossa. 16 reperti (Marcos y Marcos 2001), Carne. 16 contatti (D’IF 2007) vincitore del Premio di Letteratura “Giancarlo Mazzacurati e Vittorio Russo”, Versi a Morsi (Mille Gru 2008), Ossa Carne / Bones Flash (2012, Dot.com Press, con CD e traduzioni in inglese di Cristina Viti), Milano Ictus (Mille Gru 2011) da cui è stato tratto l’omonimo spettacolo crossover di poesia, teatro, musica. Suoi testi poetici sono stati pubblicati negli Stati Uniti (Interim 2006) e in Scozia (Luath Press/Torino Poesia 2009) tradotti dal poeta americano Christopher Arigo. Ha vinto diversi premi di poesia ed è stato pubblicato in numerose antologie, blog e riviste letterarie italiane. Ha sviluppato metodologie didattiche applicate alla poesia contemporanea – scritta e ad alta voce – e tiene seminari e corsi per ogni età e grado di preparazione. È stato uno dei primi in Italia a praticare la poetry therapy.

Ideatore di numerosi eventi poetici, è direttore artistico di PoesiaPresente (www. poesiapresente.it). Nel 2013 ha co-fondato la LIPS, Lega Italiana Poetry Slam (http://www.lipslam.it/) di cui è Presidente. È regolarmente invitato in festival di poesia & performance internazionali (Europa, Melbourne, Rio De Janeiro). Ha vinto il primo Poetry Slam ripreso e mandato in onda dalla RAI (Rai 5, 2015), Radio Televisione Italiana.

E-mail: versiamorsi@tiscali.it / info@poesiapresente.it

Giugno 2015 – ©Riproduzione riservata