i cannibali della parola

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Maria Pia Dell’Omo: ATN/TN2 poetry

In quest’intervista Dimitri Ruggeri dialoga  con Maria Pia Dell’Omo sul rapporto tra la sua patologia (nevralgia trigeminale) e l’attività poetica e performativa. Il contributo si aggiunge alla  sezione “interviste” di questo spazio web.

[…] Per ogni parola detta ce ne sono altre cento risparmiate, che urlano sotto la lastra di ghiaccio per poter essere “viste”. […] M.P.D.

D.R. Corpo di dolore” è un progetto di spoken music che vuole portare all’attenzione una malattia: la nevralgia del trigemino. Ci parli della patologia e come i testi la affrontano?

M.P.D. La particolarità della raccolta è che ogni testo è stato scritto durante un attacco di nevralgia trigeminale, nell’arco di tempo che va dal 2017 al 2018, ovvero quando le mie condizioni sono peggiorate in seguito a un “incidente”. La nevralgia del trigemino è un disordine del V nervo cranico, il più esteso sul viso, e si può manifestare in diversi modi. Dobbiamo pensare al nervo come a un’autostrada che veicola messaggi. Nelle persone sane veicola la pressione di un tocco, il caldo o il freddo, ci permette di distinguere tra uno schiaffo e una carezza, ad esempio. Nel soggetto malato invece gli stimoli esterni possono tradursi in “messaggi sbagliati”, in messaggi di dolore: si chiamano allora “trigger” (cioè “grilletti”) perché scatenano una reazione abnorme rispetto alla loro entità. Così un pizzicotto affettuoso di un amico diventa un fuoco, una bibita troppo fredda un pugnale in un occhio, un po’ di vento può scatenare le pene dell’inferno: si ha la sensazione di essere punti da spilli, oppure si anestetizza completamente il lato di volto interessato, continuando però a “bruciare” internamente (fenomeno detto “anestesia dolorosa”). Oppure si possono avere degli elettroshock nelle zone interessate dal nervo. Vi segnalo questo video, fatto da una associazione americana, che secondo me rende perfettamente l’idea

Io ho la forma di nevralgia trigeminale detta “atipica” (ATN o TN2), di maggiore frequenza tra i soggetti giovani – è iniziata otto anni fa, ora ho trent’anni – e sono anche bilaterale (cioè rappresento il 5% della popolazione colpita – che c*lo!). Uno degli attacchi che ricordo con maggiore angoscia è durato circa 300 ore. L’anno scorso in alcuni periodi ho dovuto spesso portare tappi nell’orecchio o bendarmi l’occhio perché le “informazioni” sonore e luminose si traducevano in pugnali in pieno viso. È complicato parlare di questa malattia perché, non ne fossi stata affetta, non avrei mai immaginato nulla di simile fosse possibile. Mi fa sentire abbastanza un’aliena e un’alienata, perché ha comportato in alcune fasi anche il mio ritiro sociale: dopo il mio ultimo “incidente” non posso più stare in luoghi climatizzati, per ordine dei neurologi, quindi mi è precluso il cinema, il teatro, il fare la spesa al supermercato; non posso prendere un treno o un aereo. L’ultima volta che sono stata in un luogo climatizzato a 24°C, in pieno dicembre, sono stata male un mese. Tutti i giorni. Tutte le ore.
Ricordo quando mi svegliai il giorno dopo l’attacco di 300 ore di cui sopra. Ero nel letto e non riuscivo nemmeno ad essere felice di non provare dolore. Mi sentivo stremata, come un soldato dopo una lunga battaglia. Poi però non mi perdo d’animo e torno a vivere. O, almeno, ci provo. Negli ultimi due anni sono riuscita a organizzare un buon numero di eventi culturali, per essere una malata cronica. C’è una parte del mio spirito, che io chiamo “la Pazza” – è quella parte creativa, rigenerativa, che mi impedisce di rassegnarmi e reagisce con la fantasia ai problemi: ho adottato un outfit particolare che si sposasse con le esigenze della mia patologia (stare sempre a capo coperto, aver dovuto tagliare i capelli, etc.) e invece le persone mi credono una persona stravagante. La personalità “ha vinto” sulla malattia. Almeno in questo. La poetica di “Corpo di dolore” credo sia da cercarsi nella rivendicazione della dignità.  Il corpo è una narrazione a sé stante che, pur prescindendo dalle parole, è un coacervo di segni, simboli e sintomi. Quindi è come se fosse un vocabolario e, di conseguenza, un linguaggio.  Anche un corpo malato è un corpo che sta esprimendo qualcosa e ha in sé una sua dignità, spesso dimenticata. Per questo, secondo me, va raccontato.

Maria Pia Dell'Omo2

Maria Pia Dell’Omo in un reading

Queste composizioni sono fatte durante i miei momenti di minore lucidità, dove spesso mi ancoravo alla parola o sceglievo di perderla, perché mi sfuggiva. Alle volte dovevo parlare o pensare in inglese, tanto il dolore mi annebbiava la mente. Lì ho compreso quanto sia complessa la mia lingua materna. È stato orribile, mi sono sentita esclusa da ciò che amo. Ma ho scelto di non avvilirmi: una sera ho composto circa cento mantra. Più il dolore incalzava, più scrivevo cose belle, piene di amore. Volevo mettere il miele sulla ferita, volevo dirmi che la vita vale la pena di essere vissuta e che si può spendere il proprio fuoco interiore per “una rinascita o una metamorfosi”, rubando le parole a Houellebecq.

Maria Pia dell'Omo

D.R. Come hai trovato l’equilibrio tra la parola detta, quella non detta, e quella detta con la musica?

M.P.D. Per ogni parola detta ce ne sono altre cento risparmiate, che urlano sotto la lastra di ghiaccio per poter essere “viste”. Che il loro destino sia la culla o il baratro, non importa. Fioriscono in immagini, assiepano la mente, cantano al posto tuo. In questo caso è stato il dolore a scegliere per me: mi lasciava senza forze e tutto usciva senza sforzo. Il foglio bianco era l’ultima rena possibile, l’unica oasi nel deserto. La musica, invece, che mi accompagna nella persona del compositore Benedetto Salamone, amplifica e nutre il mio messaggio di significazioni altre. Mi permette di essere più libera. Queste parole sono come macigni per me, mentre ricordo in che condizioni ho scritto, composto. A voce “asciutta” avrei paura di farci del male, alle persone. Con la musica, no. Con la musica accade una specie di miracolo: diventa un’onda e io ci galleggio. La voce si sposa alle note, il corpo segue. Quando vidi la prima volta che tutti avevano gli occhi chiusi e si lasciavano cullare dalle sensazioni, dal connubio di voci e musica, ho avvertito una gioia terribile. La gioia di aver manifestato il terribile, senza far sanguinare nessuno.
Questo è quello che conta, per me.

mani

dove sono i miei mezziguanti
per i miei mezzi-occhi:
con le mani non riesco interi a

coprirli
ho bisogno di buchi
buchi dappertutto
traforature tra le maglie
in cui fare spazio alla
luce con le unghie –
stretti tra i pollici,
i fili,
come cavi di rame
che mi conducono altrove,
io, metrò
sconclusionato
e sporco
dimentico
vagabondo come un vecchio

impillolato
nel cuore della mia città.

(Maria Pia Dell’Omo, poesia inedita da “Corpo di dolore”)

D.R. Nello spettacolo come affronti l’aspetto performativo?

M.P.D. Con grande semplicità e verità. Anche con sofferenza. Alcune frequenze mi danno dolore, mi pugnalano in pieno viso, ma provo a fare del mio meglio per resistere, per essere un “vuoto” che si fa “pieno” delle immagini, delle parole, dei suoni evocati. Io e Benedetto siamo come dei negromanti in quel momento: chiamiamo dalle tenebre qualcosa di infernale, per fare luce. Per fare denuncia: la mia malattia ancora non è tabellata tra quelle invalidanti, eppure è reputata una delle più dolorose provate dall’essere umano.

Sono consapevole che anche essere fragile, essere umana agli occhi del pubblico, sia il cuore dello spettacolo. E in questo mi aiuta molto la sensibilità musicale di Benedetto: ha trovato le giuste note, le giuste dissonanze coi suoi droni, per dare una veste alle parole e alle emozioni di questo percorso che, ci tengo a ribadire, non è autocompiacimento nella sofferenza, ma racconto, denuncia, tentativo di umanizzazione di una patologia definita “invisibile”. Ho fede nel fatto che una comprensione immediata tramite le emozioni possa generare maggiore amore, rispetto ed empatia. Per questa ed altre condizioni. Per, rubando le parole a un grande, “restare umani”.

D.R. Ci suggerisci delle tue letture che ti hanno supportato in questa ricerca?

M.P.D. Beh, ho letto molti manuali di neurologia ultimamente (ride). Fuor di scherzo, sono state per me salvifiche le parole di Borgna (“La dignità ferita”).  Ho riportato alla mente dei passaggi di un saggio di Benasayag e Schmit (“L’epoca delle passioni tristi”) sullo stigma sociale. Avrei voluto leggere anche “Il corpo” di Galimberti, ma non ho avuto la serenità di cui credo di aver bisogno per affrontare un testo simile. Di contro, ho molto letto di Lowen negli anni passati e anche di Levine sulla guarigione dai traumi fisici, psichici ed emotivi. Nel recente periodo di reclusione domestica, invece, in cui ho fondato “RadioSonetto”, Sylvia Plath mi è stata spesso di conforto emotivo.

D.R. Parlaci dei tuoi prossimi progetti futuri.

M.P.D. Si è appena conclusa una mostra (durata dal 17 al 21 ottobre) sulle algie del capo in cui ho coinvolto altri artisti della mia città, Caserta, per dare voce a una classe di malati definiti “invisibili” (fibromialgici, emicranici, neuropatici, etc.); per il finissage, proprio per corroborare i valori dell’ascolto, del rispetto e dell’inclusività, ho desiderato si tenesse un reading sull’emarginazione legata a mali psicologici, oltre che fisici. C’è sempre una ferita nel tessuto sociale, se lo indaghiamo, e creare occasioni di condivisione dove chi si confessa non si senta un “alieno” per qualcosa che lo sta mettendo alla prova o gli procura sofferenza è davvero necessario. È un volgere “al rispetto ardente e inflessibile di ogni altro umano destino e alla difesa coraggiosa della dignità che è categoria esistenziale ineliminabile da ogni vita”, citando Borgna.

Tornando ai progetti in itinere, in questo ottobre ho una rassegna di letteratura, “Mondo Weird”, dedicata al sovrannaturale in letteratura, che terminerà nel mese di novembre.

Stiamo lavorando ad uno spettacolo in più lingue con il gruppo di poesia performativa “Voci Confinanti”, di cui sono membro. Sto organizzando una serie di workshop di scrittura creativa, da sola o in collaborazione con Caspar, Officina Milena – dipende dal contesto – e terrò da gennaio un corso di editoria assieme allo staff di Milena Edizioni, in qualità di editor e writing coach. Ci sono anche altri format in attesa di “venire alla luce”, ma per essi non ho stabilito ancora delle date precise: la mia cara “Pazza” è sempre all’opera, industriosa come “una piccola ape furibonda”.

*

Maria Pia Dell’Omo (Napoli, 1987) è promotrice e organizzatrice di eventi culturali a
Caserta. Ha ideato un format di sperimentazioni legate alle arti tramite cui promuove i
talenti artistici del suo territorio. È editor, curatore editoriale di volumi poetici e di narrativa gotica, nonché writing coach. Ha collaborato con diversi lit-blog e testate online e cartacee. Organizza gare di slam poetry, indipendentemente o come membro del collettivo Caspar – Campania Slam Poetry. Grazie agli studi in recitazione, ha sviluppato un approccio performativo alla poesia: è ospite in mostre, organizza manifestazioni, flashmob e performance poetiche da sola o assieme al gruppo “Voci Confinanti”, di cui è membro. Ha un programma radio come podcaster: “RadioSonetto”.
Blog personale

Un commento su “Maria Pia Dell’Omo: ATN/TN2 poetry

  1. Maria Pia Dell'Omo
    19 novembre 2018

    L’ha ribloggato su Il Capestroe ha commentato:
    Grazie a SlamContempoetry per questa bellissima intervista!

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