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Matteo Auciello: la musica di Giorgio Caproni

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Matteo Auciello plus Giorgio Caproni (Foto courtesy of Libreria Primo Moroni)

Nell’ambito del progetto Doqpoetry, poeti che raccontano poeti che ha visto la performance poetica di Matteo Auciello lo scorso 30 gennaio 2019 proponiamo l’intervista verbale, rilasciata al termine dell’evento, trascritta dall’autore in esclusiva per SlamContemPoetry. Matteo ci  racconta Caproni.

Ci parli di Giorgio Caproni?

Considero Caproni un artigiano della poesia, intendendo l’artigianato come la capacità di lavorare un materiale (qualunque esso sia) con competenza, amore e umiltà. Le sue poesie (soprattutto quelle che amo di più) sono per me innanzitutto manufatti di altissimo valore, realizzati con una maestria indipendente dalle teorizzazioni e dalle mode culturali. Questa attitudine gli proviene molto probabilmente dalla sua formazione musicale, o così mi piace pensare: Caproni era violinista e da giovane, nei suoi studi di composizione, si trovò a dover elaborare delle partiture basate su testi poetici. Inizialmente utilizzò testi della tradizione italiana; poi, per risparmiarsi il lavoro di ricerca, cominciò a scriverne di propri. L’insegnante di composizione non se ne accorse e Caproni continuò così. In seguito la sua carriera di musicista si interruppe precocemente e rimase (molto fortunatamente, direi) la scrittura poetica, che ha sempre conservato una grandissima qualità musicale, evidente soprattutto nel recupero delle forme metriche tradizionali e della rima.

Perché lo hai scelto?

Ti direi, molto semplicemente, che l’ho scelto perché amo la sua poesia, che ho scoperto e frequentato da giovane, in una fase di vita (i vent’anni) in cui si definiscono propensioni fondamentali del nostro percorso, umano o artistico che sia. Amare un autore è ovviamente una molla fondamentale per confrontarsi con lui… Questo però non sarebbe bastato per il tipo di lavoro che ho cercato di fare con la poesia di Caproni. Ci sono autori che oggi leggo di più o a cui attribuisco (in generale) un valore poetico più rispondente ai miei gusti attuali, ma sento che sarebbe molto difficile o addirittura fuorviante portarli in scena, probabilmente perché il loro linguaggio si presta meno efficacemente alla comunicazione orale. Per esempio, ho una grandissima ammirazione per Antonio Porta (per citare un altro autore italiano, sia pure molto diverso da Caproni), ma esiterei a proporlo dal vivo (soprattutto in una performance tutta incentrata su di lui), per via di un suo tratto avanguardistico o sperimentale che – temo – lo allontanerebbe dalla percezione del pubblico, molto più abituato a una comunicazione visiva o comunque fondata sul linguaggio del corpo. Ovviamente tutto si può portare in scena, con le opportune strategie… Ma io ho sempre il timore che la poesia dal vivo, se non assume concretezza e corporeità, si ritrovi (come ha scritto un grande regista teatrale, Romeo Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio) a fare «la parte della stupida». Invece la poesia di Caproni ha una grande leggibilità e carica comunicativa, anche nei testi stilisticamente più elaborati e lontani dalla lingua della comunicazione quotidiana. Insomma, istintivamente ho sentito che mi sarei sentito a mio agio nei suoi testi e avrei quindi reso loro un buon servizio, proprio grazie alla qualità musicale (e quindi comunicativa) di cui abbiamo già parlato. Effettivamente è andata proprio così. Del resto avevo deciso di imparare i testi a memoria, per cercare di riproporli o “riviverli” nel modo più naturale, e la loro organizzazione in misure metriche tradizionali mi ha molto agevolato in questo.

Ci sono delle affinità fra il tuo linguaggio e quello di Caproni?

Credo – inevitabilmente – di sì. La più importante è forse la tendenza a lavorare sul testo non come espressione della soggettività ma come “oggetto”, struttura verbale dotata di caratteri che vanno oltre l’occasione o le motivazioni esistenziali che l’hanno generata. Ovviamente un testo rispecchia sempre, a un qualsiasi livello, la personalità di chi lo ha scritto. Però io sento che, nel mio lavoro di scrittura, prende il sopravvento quella che definirei la “materia” del testo, un insieme di caratteri formali (per esempio la scelta delle parole, il loro suono, il ritmo del discorso) alternativi alla normale esperienza dell’io biografico. Ricondurrei questi caratteri a due livelli speculari: uno “pre-sociale” e inconscio, in cui si manifestano il corpo, le pulsioni, l’immaginazione; l’altro “sociale” e sovrapersonale, in cui si manifestano la lingua e la memoria culturale come prodotti collettivi, in grado di condurre l’io in territori nuovi, inattesi o “perturbanti”. Probabilmente mi muovo tra questi due livelli e ad essi mi affido molto volentieri, nell’intento di arginare tutto ciò che percepisco come troppo personale e “autobiografico”, ovvero legato a un’idea di letteratura come racconto immediato di sé. Cosa sia la letteratura (intendo una letteratura “alta”, consapevole, ironica e critica nel suo rapporto col mondo) non è probabilmente il caso di discutere qui, ma posso dirti almeno che la considero un ottimo strumento di conoscenza, utilissimo per sondare possibilità di esistenza alternative a quelle implicite nel nostro immaginario “liquido”, narcisistico, modellato dalle leggi del mercato e dal sistema della comunicazione digitale.

Se non avessi lavorato su Giorgio Caproni, quale autore avresti scelto?

Intanto ti rivelo che nella performance ho inserito, senza segnalarlo in alcun modo, anche un mio testo, che compare alla fine quasi come la traccia fantasma di un album musicale… Mi è piaciuto confondere le acque, inserendo un tassello che solo orecchie molto attente (o esperte di tutta la produzione poetica di Caproni) potrebbero identificare come estraneo.

Tornando invece alla tua domanda, abbandono il campo della lingua italiana e ti indico molto volentieri Wystan Hugh Auden, un altro autore che – come Caproni – lavora sulla poesia come opera di altissimo artigianato, dotata di un valore comunicativo che assume un carattere etico, ironico e “politico”. Anzi, per abbandonare la teoria e tornare alla prassi, ti segnalo il testo che, in risposta a questa domanda, ho letto al termine della performance su Caproni: è Ferdinando, dal capitolo II de Il mare e lo specchio, un bellissimo commentario a La tempesta di Shakespeare. Ognuno potrà immaginarne la lettura che preferisce.

RIPRODUZIONE RISERVATA – Aprile 2019

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